Below is the full article from 1981, as delivered and then published in Italian:
La Traduzione di Edward Fitzgerald di "El Alcade de Zalamea"
Edward Fitzgerald è conosciuto soprattutto per la sua versione del Rubáiyát di Omar Khayyám. Questa scelta di quartine, originalmente autonome ma ordinate in successione temporale da Fitzgerald, pubblicata nel 1859, divenne oggetto di un culto, tanto che fu fondato a Londra nel 1892 un Omar Khayyám Club. (1) Fitzgerald si sintonizzava così perfettamente con questo poeta persiano del dodicesimo secolo da poter creare un capolavoro della poesia inglese, incluso come tale nelle antologie, che, con la sua unità artistica, supera qualitativamente le quartine che trovò disposte disordinatamente nei manoscritti originali. Eppure gli studiosi lo attaccavano, e lo attaccano ancora oggi: già nel 1899 Edward Heron Allen analizzò questa traduzione dal punto di vista testuale (2); ogni tanto appare, senza successo, una nuova traduzione nel tentativo vano di sminuire la fama di Fitzgerald (3); i critici della letteratura persiana lo sottovalutano (4); lo stesso Ali Dashti, il maggiore critico persiano, afferma, in un volume scritto sull'argomento, che
«... Fitzgerald made no kind of scholarly research into Khayyàm's poetry, but merely drew inspiration from some of his verses in order to compose an entirely independent masterpiece» (5).
Ma questo era precisamente l'intento di Fitzgerald; e vi riuscì, vista la popolarità del Rubàiyàt in Inghilterra.
Poiché i criteri e il metodo di traduzione sono gli stessi, sembrerebbe difficile spiegare la ragione per cui le sue traduzioni dei drammi di Calderón de la Barca siano oggi dimenticate. È da attribuirsi alla flessione della popolarità di Calderón, o a qualche difetto nelle traduzioni di Fitzgerald? Sebbene non sia in grado di rispondere pienamente a questo interrogativo, vorrei alludere ad esso attraverso qualche cenno al personaggio di Fitzgerald e alle sue idee sulla traduzione, con alcune osservazioni sul monologo di Isabel all'inizio della «Jornada Tercera» ne EI Alcalde de Zalamea. Fitzgerald nacque nel 1809, a Woodbridge nella contea di Suffolk, dove trascorse quasi tutta la vita. Intollerante della vita di società e di commercio, si dedicò, dopo aver studiato a Cambridge, quasi esclusiva-mente alla lettura. Fu un uomo di erudizione profonda e di un talento artistico squisito: suonava pianoforte e organo bene; disegnava, faceva acquerelli; acquistò quadri, fra i quali un Tiziano e un Constable. Il suo gusto estetico era mirabile, anche se spesso controcorrente; sapendo che, nelle sue parole, «I differ in Taste from the world», non tentava di proporsi come critico, sebbene mantenesse una lunga corrispondenza con grandi uomini di cultura come Tennyson, Carlyle, Thackeray, Charles Eliot Norton e James Russell Lowell. Nonostante queste corrispondenze la sua partecipazione alla vita culturale del tempo era dall'esterno: non desiderava trasferirsi a Londra, né amava viaggiare. Scrisse infatti a Frederic Tennyson, fratello di Alfred, che viveva in Italia:
«But of this I am sure: if I saw all these fine things with the bodily eye, I should but see them as a scene from a play, with the additional annoyance of being bitten with fleas perhaps, and being in a state of transition which is not suitable to me: whereas while you see them, and will repeat them to me, I see them through your imagination, and that is better than any light of my own» (6).
Così rimase nel Suffolk, conoscendo l'Italia attraverso le lettere di Tennyson, l'India attraverso le lettere di Edward Cowell, e la Spagna attraverso quelle di James Russell Lowell, console americano a Madrid. Scrisse ancora a Frederic Tennyson:
«It is true: I really do like to sit in this doleful piace with a good fire, a cat and a dog on the rug, and an old woman in the kitchen» (7).
Ma nello stesso tempo riceveva scatole di nuovi libri da Londra, leggeva e rileggeva i classici inglesi, latini, greci, italiani, francesi, spagnoli e persiani, e viaggiava così nel suo studio, creando l'amabile personaggio che Carlyle descriveva come:
«... the peaceable, affectionate, and ultra modest man, and his innocent far niente life» (8).
Soprattutto viaggiava con l'aiuto di Edward Cowell, studioso, linguista, e più tardi Professore di Sanscrito a Cambridge, con il quale stu-diava sia il persiano che lo spagnolo. Nel 1852, scrisse a W. B. Donne:
“I have begun again to read Calderon with Cowell: the Màgico we have just read, a very grand thing. I suppose Calderon was over-praised some twenty years ago: for the last twenty it has been the fashion to under-praise him, I am sure. His Drama may not be the finest in the world: one sees how often too he wrote in the fashion of his time and country: but he is a wonderful fellow; one of the Great Men of the World» (9).
Era anche un appassionato di Cervantes, e un cenno in una lettera a W. F. Pollock mostra il piacere che egli traeva dalla sonorità della lingua spagnola. Don Quixote, scrisse,
«... is so delightful that I got to love the very dictionary in which I had to look out the words; yes, and often the same words over and over again» (10).
Quanto egli tradusse, fu specificamente per trasmettere questo piacere e «to entertain» coloro che non potevano leggere l'originale. Nel riconoscere la necessità di ridurre ed interpretare il testo, Fitzgerald anticipava intuitivamente, e spiegava nelle sue lettere, ciò che Jakobson chiama «creative transposition», trapiantando quello che egli trovava «piacevole» nel contesto culturale inglese (11). Pienamente consapevole dei problemi particolari della traduzione dei testi teatrali, li risolse produ-cendo testi puramente letterari, da leggere. Nel caso di EI Màgico Prodigioso e La Vida es Sueño specificava scrupolosamente «taken from» l'opera di Calderon (12). In questo modo, poteva essere più libero con i testi, evitando la pedanteria di molte traduzioni inglesi ottocentesche di drammi in versi (13).
Cosi Fitzgerald poteva criticare le versioni di Calderón fatte da Trench:
«With Trench the Language has to be forced to secure the shadow of a Rhyme which is no pleasure to the Ear» (14).
Ed è questo principio di «piacere» che informa tutte le sue traduzioni, di Calderón, di Khayyàm, di Sofocle, di Eschilo, di Virgilio, di Petrarca, e del Parlamento degli Uccelli di Attar. Data l'impossibilità letterale di tradurre, un cliché questo della critica moderna, il tentativo di Fitzgerald deve essere giudicato in base alla leggibilità del risultato.
Nell'Advertisement ai Six Dramas from Calderon freely translated, pubblicati nel 1853, Fitzgerald definiva perfettamente il suo scopo. Dichiarando di aver tralasciato i drammi più famosi, sostiene che una traduzione strettamente letterale di Calderón non può essere valida, in quanto
«... retaining so much that, whether real or dramatic Spanish passion, is still bombast to English ears, …» (15)
e che Calderón usa idiomi, ricercatezze stilistiche, ripetizioni di pensieri e immagini, che non possono essere tradotti perché appartenenti alla sfera culturale piuttosto che a quella linguistica. Proseguiva poi nell'affermare, sempre nell'Advertisement, di aver
«... while faithfully trying to retain what was fine and efficient, sunk, reduced, altered, and replaced, much that seemed noi; simplified some perplexities, and curtailed or omitted scenes that seemed to mar the breadth of general effect ...; and in some measure have tried to compensate for the fulness of sonorous Spanish, which Saxon English at least must forego, by a compression which has its own charm to Saxon ears» (16).
Nel monologo di Isabel si può vedere come si concretizzino queste teorie. In una nota posta alla fine dell'opera spiegava che «Isabel's speech is intentionally reduced to prose, noi only in measure of words, bui in some degree of idea also» (17)
benché asserisse che sarebbe stato molto più facile tradurlo in versi, considerandolo il più sublime brano della poesia di Calderón. Infatti, dopo due Jornadas di linguaggio meno esaltante Calderón arriva all'acme del dramma quando Don Àlvaro de Ataide rapisce Isabel, che, disonorata, esordisce:
«Nunca amenezca a mis ojos
la luz hermosa del día,
porque a su sombra no tenga
vergüenza yo de mí misma» (18).
La forza della parola iniziale «Nunca» stabilisce perfettamente il timbro negativo del monologo. Fitzgerald riesce a rendere tale negatività raddoppiando la parola più debole «never», in una frase di prosa che potrebbe effettivamente essere costituita da due pentametri giambici pronunciati da un'eroina shakespeariana:
«Oh, never, never might the light of day arise and show me to myself in my shame! » (19)
che esprime la disperazione di Isabel e le cadenze esitanti del testo originale. In realtà, nonostante il suo proposito di riprodurre il monologo in prosa, il risultato è squisitamente poetico. I versi:
«Detente, i oh mayor pianeta!,
más tiempo en la espuma fría
del mar:»
vengono resi:
«And thou, great Orb of all, do thou stay down in the cold ocean foam;»
in cui la seconda parte, «do you stay down in the cold ocean foam;» potrebbe essere un esempio tipico di «Blank Verse». Il ritmo discendente, rinforzato dall'allitterazione di «do» e «down», e l'effetto onomatopeico dello stesso «down », rispecchia il movimento discendente fino all'assonanza di «ocean foam», che obbedisce perfettamente all'imperativo «Detente,». Questo trasferimento dell'immagine della freddezza del mare costituisce un esempio probante di «creative transposition». Più interessante, forse, dal punto di vista culturale, è il concetto di onore, così fondamentale per la risoluzione drammatica dell'opera, e la violenta estirpazione da parte di Fitzgerald della retorica e magniloquenza intorno ad esso. Questi sei versi sono infatti ridotti all'essenziale.
«¡Ay de mí!,
que acosada y perseguida
de tantas penas, de tantas
ansias, de tantas impías
fortunas, contra mi honor
se han conjurado tus iras.
¿Qué he de hacer?
con un inglese assai più prosaico:
«Oh! Horror! What shall I do?»
che, nonostante la perdita poetica, rende un'idea altrimenti incomprensibile al pubblico inglese vittoriano. Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che il concetto dell'onore, così importante nella Spagna di Calderón, non trovi riscontro nella cultura inglese dell'epoca. E Fitzgerald, conscio di ciò, lo rende con una traduzione quasi letterale di questi versi:
«al anciano padre mío,
que otro bien, otra alegría
non tuvo, sino mirarse
en la clara luna limpia de mi honor,»
che diventano:
«and to my aged father, whose only joy it was to see his own spotless honour spotlessly reflected in mine,»
dove, pur perdendo la meravigliosa immagine della «clara luna limpia», Fitzgerald esprime con il suo ritmo giambico, e mantenendo l'immagine dello specchio, un concetto completamente plausibile nel contesto culturale nel quale scriveva, dandoci così una traduzione etica al di sopra di quella linguistica.
Credo che questi pochi esempi illustrino la qualità del lavoro di Fitzgerald. Il fatto che la traduzione del Rubàiyàt di Omar Khayyàm coincidesse perfettamente con un periodo di scetticismo e incertezze spirituali, cosa che ne determinò il successo, e che non avvenne per i drammi di Calderón che nascevano da un ambito culturale spiritualmente più sicuro di sé, sembra essere un puro caso, visto il modo fortuito con cui Fitzgerald sceglieva i suoi testi. Che il primo fu generatore di un culto, mentre il secondo venne quasi ignorato, non costituisce un giudizio di valore sulle traduzioni delle opere di Calderòn. Nonostante l'uso di arcaismi così comune nelle traduzioni ottocentesche, egli riesce non solo a trapiantare El Alcade de Zalamea nella cultura inglese, ma anche a creare vera poesia nell’ambito della prosa da lui considerata il solo mezzo per tradurre l’opera di Calderòn.
NOTE
1. Cfr. JOHN D. YOHANNAN, « The Fin de Siècle Cult of Fitzgerald's Rubàiyàt of Omar Khayyam», in Review of National Literatures, vol. II, No. 1, Spring 1971, Iran, St. John's University Press, New York, 1971, pp. 74-89.
2 Cfr. EDWARD HERON ALLEN, Edward Fitzgerald's Rubá'iyyat of Omar Khayyàm with their Origina! Persian Sources, London, 1899.
3 Cfr., per esempio, quella di ROBERT GRAVES e OMAR ALI-SHAH, London, 1967, dove si può trovare «Two Comparative Renderings» a pp. 82-83.
4 Cfr., per esempio, REUBEN LEVY, An Introduction to Persian Literature, New York, 1969, pp. 38-39.
5 ALI DASHTI, In Search of Omar Khayyàm, tradotto da L. P. Elwell-Sutton, London, 1971 (Tehran, 1966), particolarmente pp. 167-184.
6. «Lettera a Frederic Tennyson, 16-8-1842», in Letters and Literaty Remains of Edward Fitzgerald, tre volumi, London, 1889, Vol. L, p. 98. vol. L, p. 143.
7. «Lettera a Frederic Tennyson, 8-12-1844», op. cit.,
8. «Lettera da Carlyle a Charles Eliot Norton, 18-4-1873 »,
9. op. cit. Vol. I., p. 355. 9 Op. cit., Vol. I, p. 221.
10. Op. cit., Vol. I, p. 310.
11. Cfr. ROMAN JAKOBSON, « On Linguistic Aspects of Translation », in On Translation, a cura di R. A. Brower, Cambridge, Mass., 1959, pp. 232-239.
12. Letters and Literary Remains, Vol. III, p. 1; p. 77.
13. Cfr. il capitolo Translating Dramatic Texts, in Translation Studies, Susan Bassnett-McGuire, London, 1980, pp. 120-132.
14. Letters and Literary Remains, Vol. I., p. 240.
15. 0p. cit., Voi. 11, p. 69.
16. Op. cit., Voi. 11, p. 70.
17. Op. cit., Vol. 11, p. 370.
18. Questa, e le tre prossime citazioni dallo spagnolo, sone tratte da Obras Completas, a cura di A. Valbuena Briones, Aquilar, 1966, Tomo I, p.356
19. Le traduzioni di Fitzgerald sono tratte da Letters and Literary Remains, Vol. II, p. 356
'La Traduzione di Edward Fitzgerald di "El Alcade de Zalamea"', Colloquium Calderonianum Internationale, L'Aquila 16-19 settembre 1981, L'Aquila, 1983, pp.133-139.